domenica 26 maggio 2013

Sms, tvb

Mi sono chiesta, sulla scia del boato mediatico che ha provocato, che cosa ne pensassi del famoso sms inviato da Dario Franceschini, pezzo da novanta del Pd, per appoggiare la sua compagna.
Tranquilli: io normalmente mi faccio domande e mi dò risposte. In altre parole me la faccio e me la dico.

Punto I. Franceschini non ha sperperato soldi pubblici per promuovere una personale campagna elettorale a favore della compagna, m ha usato il suo cellulare personale, ha scritto a 10 persone, che sono amici stretti. Quelli che insomma, ci si trova per un caffè, o a cena (e che adesso saranno 9).

Punto II. Ma se avesse spinto con sotterfugi e ammiccamenti poco leali alla candidatura della fidanzata io capisco pure. In fondo ci danno fastidio tutti coloro che sponsorizzano una moglie, un marito, un amante, un figlio, un cugino (e l'Italia, ahimè, è piena di questi esempi). La differenza sta proprio qui, nell'avere inviato un messaggio personale, senza costringere o ricattare nessuno (cosa che una volta a me successe: un "amico" mi prende da parte e mi fa "Dai Anna, dì ai tuoi di votare per quel ragazzo che gli ha regalato quella volta i biglietti per tal spettacolo". Non ho più votato per lui. E neanche i mei).

Punto III. All we need is love. Sarà pure retorico, ma brava la Santanchè: finalmente qualcuno che invece di sparare a zero facendo a pezzi gli avversari dice qualcosa di buono. Mi piace quando scende in campi questa Politica oltre le fazioni, non la politichetta gossippara e anche piuttosto squallida a cui siamo abituati da Arcore in avanti.

Punto IV, e ho finito. Posto che la scelta di ognuno è libera, per una volta non facciamo le pecore e pensiamo con la nostra testa. Tipo, leggiamo bene il testo del messaggio imputato: "Caro Xxx, se voti a Roma posso proporti di dare la preferenza a Michela Di Biase, la mia compagna, che si candida in consiglio comunale? Dario". Non c'è nulla di male in questo, non è certo riprovevole come mandare a casa una persona che lavora per piazzare la fidanzata. Questo sarebbe stato molto peggio, ed è lì che bisogna arrabbiarsi e sollevare uno spolvero e mediatico, magari sputando in un occhio a chi fa questo genere di cose. Perché, come dicevo, di esempi come questo su cui sarebbe giusto accanirsi, in Italia ce ne sono molti...

domenica 12 maggio 2013

La lezione di Olimpia

Quando si ha la fortuna di intraprendere un viaggio, staccando la spina con la vita di tutti i giorni, si impara sempre qualcosa. O per lo meno, si risveglia in noi (oltre che un senso di spensieratezza che la vita frenetica di ogni giorno ci ruba), anche un senso insito di coscienza, di consapevolezza. Su noi stessi, su quello che ogni giorno facciamo, su quello che diamo o potremmo dare per fare di più e meglio, o se invece stiamo dando forse troppo, sprecando così energia e tempo preziosi.

Nell'antica Olimpia, dove un gruppo di appassionati greci inventò i Giochi Olimpici tanti, tanti anni fa, ho riscoperto il significato della parola "onore", per esempio. L'onore ha tante sfaccettature: l'onore più grande e alto per me l'ha avuto chi ha combattuto per l'Italia e per la Libertà perdendo la vita, o chi prima di morire ha guardato in faccia i suoi assassini dicendo "vi faccio vedere io come muore un italiano". Ecco, questo è il più alto significato di onore che io conosca. Ma ci sono anche altre sfumature, che ben lo descrivono.

Zigzagando tra i preziosi reperti archeologici di Olimpia (c'è chi le chiama rovine, ma io preferisco chiamarli così), accecata da un sole di maggio che sembrava quello di luglio, ecco la rivelazione. Nel Gymnasium, dove i giovani atleti greci si allenavano, studiavano e imparavano (più o meno come nel ginnasio di oggi, ma senza fare scioperi perché la carta igienica è ruvida) ci spostiamo nel luogo dove gli atleti un tempo gareggiavano: l'antenato dello stadio. In molti viaggiavano chilometri per mare e per terra per competere lì per le Olimpiadi, in molti (spettatori compresi) morivano di sete o di caldo durante quei giorni. E chi vinceva era uno solo, non c'erano secondi, terzi, quarti classificati. Niente medaglie, né tanto meno quelle d'argento o di bronzo: il secondo arrivato era il più grande sconfitto.
Si imparava, ci si allenava, si sudava, si gareggiava, si vinceva per l'onore, non per premi e premiucci, non per soldi o per potere. Onore che chi oggi è al potere, chi "vince", non credo sappia cos'è. Hanno più onore coloro che rinunciano alle loro ambizioni, rinunciano ai loro sogni per spaccarsi la schiena lavorando, così da poter mantenere la famiglia, e magari far studiare i figli.
Hanno più onore ragazzi e genitori che per dieci mesi lavorano per mare, sulle crociere, lontano dalle loro fidanzate e dai loro figli di un anno, per poter guadagnare qualcosa in più.
Non è retorica, è che non ci si pensa abbastanza, perché sono mondi lontani, storicamente in un caso, socialmente in un altro. A volte, a fare la differenza in una persona, sia essa un politico o un operaio, una casalinga o una manager con tacchi a spillo, è solo questione di dignità: in una parola sola, onore.

giovedì 2 maggio 2013

Baby BANG


Mentre addentavo la mia brioche alla marmellata (con conseguenze catastrofiche), ho alzato gli occhi. Tra il via vai di prima mattina, nella pasticceria affollata da signore, nonnine arzille e impiegati e artigiani per un-caffè-al-volo prima di riprendere a lavorare, mi sono ritrovata davanti, nel tavolino di fronte, una pistola puntata.
A mirare dritto in mezzo alla mia fronte, mentre la marmellata traboccava sbrodolando da ogni angolo, uno spocchioso bambino di neanche sei anni, con i capelli rossicci, lentiggini e uno sguardo sadico. Strizza l’occhio per prendere bene la mira, puntella il gomito sul tavolino e sputacchiando fa il verso della mitragliatrice, mentre sua madre era indaffarata a parlare dell’ultima puntata di Uomini e Donne con la sua amica.
Io gli ho fatto una faccia tipo “Embè?” ho abbassato gli occhi (mentre probabilmente nella sua mente mi esplodeva la testa in una scena alla Quentin Tarantino), e ho continuato a mangiare la mia brioche.
Questa cosa apparentemente senza significato è successa ormai una settimana fa.
Io adoro Tarantino, e anche se il mocciosetto in questione (mannò, che dite? io adoro i bambini…) mi puntava in faccia una pistola giocattolo, vi dirò: non è stato simpatico. 

Certo, era una pistola giocattolo, ma ben fatta, l’effetto era piuttosto realistico. Chissà, forse non starei a pensarci ancora se oggi nel Kentucky bambino di cinque anni non avesse sparato e ucciso la sorellina di due anni con il fucile per bambini che gli era stato regalato dai genitori. O forse sì.
Il dibattito è tra i più accesi, anzi, forse il più acceso negli USA, soprattutto dopo la strage alla maratona di Boston, dove in molti hanno cambiato idea sull'appoggiare la campagna di controllo armi promossa da Obama, mentre noi dall’altra parte dell’Oceano stiamo a guardare, chi contro chi no, ma tanto il problema fortunatamente non ci riguarda, perché qui le pistole sono solo dei giocattoli.

I maschietti giocano con pistolette finte da sempre (per non parlare di quella di cui sono naturalmente dotati), non faccio la paternale e non mi metto certo a pontificare sull’argomento. Ma un limite deve esistere, altrimenti si continuerà a confondere la realtà da quella che è la finzione, il gioco. Un’arma giocattolo lo è finché rimane tale, è chiaro a tutti il concetto, ma il costruirne sempre di più reali, fa sì che questo confine si assottigli sempre di più, lasciando che anche la finzione faccia parte della nostra realtà, finché queste si confondono, finché anche uccidere diventa un gioco. Il mocciosetto crescerà e diventerà uomo. Chi me lo dice che non deciderà di farsi il porto d’armi e che non ammazzerà con la stessa facilità e leggerezza la fidanzata che l’ha lasciato?
Ora, il piccolo mostro probabilmente avrà già abbandonato la sua finta calibro 9 per la psp. Ma per una volta, tutto sommato, sono contenta sia così (sempre che non s’ammazzino anche lì…)