lunedì 22 luglio 2013

#SocialBaby

Non era ancora nato e il terzo in linea di successione al trono, alias Royal Baby, il figlio di William e Kate era già famoso.
E non perché ne sto parlando io, di grazia: centinaia di giornalisti assiepati davanti al St. Mary's Hospital, copertine sui giornaletti con tanto di sosia di Will&Kate che si abbracciano felici e, soprattutto, migliaia (milioni!?) di tweet, oltre che due account Twitter (royalbaby @middletonchild e @RoyalFetus).

Oh, my God. Il primo principino social della storia è finalmente arrivato.
Consola il fatto che la povera Kate avrà sudato sette camicie imprecando al suo William, proprio come avrà fatto la signora indiana al terzo piano e al terzo figlio (magari in un ospedale a Mumbai). Consola il fatto che questo #RoyalBaby è venuto al mondo come qualsiasi normale bambino. Consolano questi sprazzi di informale normalità, perché niente, al di fuori di questo e di poche altre cose nella sua vita sarà "normale". 
Ma scusate, uno che ogni secondo conta una dozzina di tweet, prima ancora di nascere, vi sembra avrà una vita normale? Suvvìa... non prendiamoci in giro.

Perché succede? Perché ci appassionano? Perché, insomma, persone che nemmeno sanno che esistiamo, e che non cambieranno mai la nostra vita, ci interessano tanto? 
Secondo voi scatta la stessa cosa che scattava a mia zia quando guardava e si appassionava alla telenovela Topazio e di cui non si perdeva nemmeno una puntata, o c'è di più? 

Loro non sono, in fondo, come le rockstar che con la loro musica danno ritmo alle nostre giornate, o scrittori che con le loro parole condiscono la nostra esistenza.
Ma ci piacciono, ci scaldano il cuore: la loro favola, diventa la nostra, anche se solo un po' . 
Una favola che continua, una saga che ci coinvolge, crea empatia (sì, come mia zia con Topazio, in un certo senso), proprio come i libri che leggiamo e che ci appassionano o i film che andiamo a vedere, solo che questa favola è reale - scusate il gioco della parola "reale", ma non ho resistito...-

E qui viene il bello: perché twittiamo? Smania di mettersi in mostra e di essere re-twittati? Voglia di "esserci dentro"? (cfr Gianni Riotta @riotta: i suoi corsi ti aprono il terzo occhio).
Voglia di non perdersi un momento della loro, della nostra storia che a distanza di trent'anni rivedremo in tv quando il piccolo in questione diventerà a sua volta papà come sta in effetti accadendo con le immagini di Diana quando uscì dal St. Mary's Hospital, 31 anni fa, il pargolo William in braccio? 

Twitto, ergo sum?

Forse. Sono, credo, tutte risposte accettabili, possibili, forse tutte giuste o forse tutte sbagliate.
Detto ciò, credo che la risposta sia che esserci dentro è uno sballo: è meglio che farsi di LSD (non ho mai provato, ma la faccia di Mick Jagger negli anni '60 diceva molto); il #SocialBaby ti trascina in un turbinio senza confini, ti rimbalza a 200 all'ora tra un tweet e l'altro, creando comunità, continuità, connessione tra individui, storie, mondi, vite assolutamente diverse, con nulla in comune, se non il #RoyalBaby (ho retwittano il tweet di un giornalista della BBC fuori dal St.Mary's: ne ho la prova).

Alla fine noi esseri umani, anche nell'era social, non smettiamo di fare quello che facciamo dall'inizio dei tempi (a parte riprodurci, cosa non estranea nemmeno ai reali: si fa in quel modo lì, a prescindere).
Siamo fatti non per vivere come bruti, ma per stare insieme, per aggregarci, per provare emozioni, sulla piazza vera o virtuale che sia: siamo, da sempre, sociali.

lunedì 15 luglio 2013

Senza pregiudizi

 Era da molto tempo che non facevo una bella chiacchierata in treno. Di solito leggo un libro, sfoglio una rivista provando una sana invidia per le modelle (e per quello che indossano), guardo fuori, scrivo -come sto facendo ora che sono sulla via del ritorno.
Invece stamattina, sul regionale che mi portava in quel di Venezia, davanti a me c'era Eloise: 28 anni e da 20 in Italia, arriva dalla Costa D'Avorio. È sveglia, spigliata, con un bel caratterino e con le idee molto chiare di come funziona il mondo. Inevitabilmente la nostra conversazione, iniziata con lei che ha mal di testa e io che le passo un Oki (ho una mini farmacia nella borsa) finisce lì: il ministro Kyenge, l'uscita di Calderoli, l'Italia e gli italiani. 
Lei alza gli occhi al cielo, giustamente... "questo poi, mamma mia". Ma invece di inveire contro Calderoli e dire frasi sprezzanti e cariche d'odio tipo "al nord siete tutti razzisti", che diciamo, era qualcosa che mi aspettavo da parte sua che rappresenta la minoranza, Eloise mi pone il problema sotto un'altra angolazione. Più vasta. Più generica, globale, un problema comune, eppure centra l'argomento. "Sai, in Italia il punto è che la gente dovrebbe aprire di più la mente. Qui non ci rendiamo conto che in altri governi di altri Stati sono da tempo presenti persone di colore, e nessuno si sogna di dire mai nulla, di offenderli. Bisogna aprire la mente". 
E su chi arriva in Italia dice la verità, quando ammette che "Anch'io avrei paura ad aprire le porte di casa mia a uno straniero. Dalla parte dello straniero, invece, spesso c'è la paura di integrarsi. Ma se l'integrazione non funziona, mi spieghi che ci sto a fare qui?"
Eloise ha viaggiato, ma sua madre è rimasta a casa e il padre vive in un altro Stato. Eppure lei non si lamenta, non fa la vittima. Può essere malinconica a casa, ma al lavoro ha sempre il sorriso. "Quando chiamo a casa e racconto che ho litigato con il mio fidanzato -italiano ndr- mia mamma mi dice 'stai attenta! Magari ti ammazza!'. Tutto il mondo è paese, i pregiudizi ci saranno sempre. Ma lo sai che quando torno in Costa d'Avorio in aeroporto mi dicono 'ecco che arriva la mafiosa'? Ti sembra bello? Lo dicono persone di colore come me che lo vedono dal passaporto che sono nata lì, anche se vivo in Italia", dice con un curioso accento metà francese e metà veneto. Ce ne fossero, come lei: non avremmo il problema dell'integrazione.
Già, grazie per avermelo ricordato Eloise. Tutto il mondo è paese, i pregiudizi sono duri a morire, ma a volte questo Paese, proprio per questo motivo, bisogna fare di tutto per cambiarlo (e possibilmente in meglio). Senza pregiudizi.